È inevitabile continuare a pensarci. Anche adesso che è tutto finito, non riesco a smettere di rivivere nella mia mente ogni attimo di quel 25 maggio. Dopo poco più di una settimana sento che il mio corpo ha già quasi smaltito del tutto la fatica, sarà probabilmente merito delle lezioni di pilates della mia amica Laura e del massaggio decontratturante eseguito dalle esperte mani di Claudio. Le vesciche ai piedi sono per fortuna un lontano ricordo. Insomma, non porto più i segni di quel percorso, iniziato mesi fa e conclusosi troppo velocemente, prima ancora che me ne rendessi veramente conto perché dentro di me le emozioni sono ancora forti e vivide.
Dopo una preparazione condotta a regola d’arte, senza nessun inciampo né intoppo, sono arrivata a due settimane dal Passatore con un forte raffreddore che mi ha indebolito tanto da farmi fermare per un paio di giorni, ma, ancora peggio, quando mancavano soli 5 giorni una contrattura ha deciso bene di far visita al mio polpaccio destro. Ero terrorizzata. Avevo paura che la possibilità di vivere il giorno tanto atteso svanisse, o peggio, avevo il terrore che quel male non mi avrebbe consentito di arrivare fino a Faenza. In questa circostanza mi sono affidata a Claudio, che dopo avermi trattato mi ha applicato un taping sperando potesse essere sufficiente per consentirmi di correre.
La settimana della gara è stata un inferno: tra lo strascico del raffreddore che proprio non mi voleva abbandonare e il polpaccio ko avevo il morale sotto i piedi. Ho seguito tutti i consigli che mi sono stati dati: riposo, tenere il polpaccio al caldo e niente corsa fino a sabato, per non rischiare che la contrattura si tramutasse in strappo muscolare. Ho cercato di distrarmi pensando ai preparativi e allontanando i pensieri cattivi. Dovevo credere che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
L’organizzazione prevedeva la partenza venerdì pomeriggio con Ale, che avrebbe corso il suo secondo Passatore, e Juri, che lo avrebbe seguito in bici. Matteo, il mio coach, mi avrebbe raggiunto l’indomani direttamente a Firenze. Sapevo che il viaggio in macchina con Ale e Juri avrebbe aiutato ad allentare la tensione, e così è stato.
Una volta arrivati a Faenza ci siamo subito diretti a ritirare il pettorale, e dopo una veloce tappa al b&b siamo andati a cena, e poi a riposare. L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa. Nonostante tutti i miei timori ho dormito bene, riuscendo a rilassarmi e ad allontanare qualsiasi tipo di ansia. Quando ho aperto gli occhi alle 6, al suono della sveglia, mi sono resa conto che era il grande giorno.
Alle 8:30 dovevamo andare a prendere il pullman che ci avrebbe portato a Firenze, in piazza Vittorio Veneto. Alle 11:30 mi sono ricongiunta con Matteo e insieme agli altri abbiamo consumato il nostro lunch box a base di pasta in bianco, banana e crostata.
Finito il pranzo non riuscivo a stare ferma, dovevo continuamente fare qualcosa: preparare la divisa con la quale avrei corso, sistemare il pettorale sulla cintura, scegliere gli integratori che avrei preso nel corso delle ore. A un certo punto Matteo mi ha detto di calmarmi, che era ancora presto e c’era tutto il tempo per fare tutto. Aveva ragione.
Con più calma, tra una battuta e l’altra per stemperare la tensione ci siamo preparati. Alle 14 ci siamo incamminati verso il Duomo di Firenze dove alle 15 avrebbe avuto inizio la 47° edizione della 100 km del Passatore.
Una volta in griglia, durante gli attimi che mi separavano dalla partenza, ero stranamente tranquilla. Avevo solo voglia di partire e iniziare a fare quello che amo: correre.
Ho iniziato a muovere i primi passi di corsa un po’ timidamente, sperando di non sentire alcun dolore provenire dal polpaccio destro. Dopo essere passata sotto la start line ho fatto partire il gps: avevo appena intrapreso il mio viaggio.
I primissimi km li ho corsi imbottigliata in mezzo ai 3300 runner partiti. Una volta fuori dal centro cittadino correre è diventato più semplice, se non fosse stato per la prima di una lunga serie di salite che mi avrebbero accompagnato fino al 48° km al passo della Colla, il punto più alto del percorso.
I passi sono diventati più corti, ho sentito aumentare i battiti del cuore e il respiro farsi un po’ più affannato. Il sole batteva forte, era il primo vero caldo della stagione. Dopo 5 km, al primo ristoro ho subito preso un bicchiere d’acqua. Sapevo quanto fosse importante bere per scongiurare il rischio di disidratarmi a gara inoltrata.
Poco dopo il 10° km Matteo mi aveva raggiunto in bici per farmi da supporto, già pronto a passarmi la borraccia con i sali. Mi ha subito chiesto come stessi e io gli ho risposto che stavo bene.
Insieme a noi c’erano Ale e Juri e tutti insieme abbiamo proseguito lungo la strada, iniziando a intavolare svariati tipi di discorsi, che spesso sono sfociati in grandi risate. Ero felicissima. Mi stavo divertendo moltissimo e tutto, ma proprio tutto, era partito col piede giusto. Avevo la situazione pienamente sotto controllo. Ogni 15/20 minuti bevevo una sorsata d’acqua o di sali e ogni 40/45 minuti integravo con gel o datteri.
I primi 21 km erano passati quasi senza che me ne accorgessi. Mentre correvo, immersa nel verde, mi guardavo intorno cercando di godermi ogni frammento dell’incredibile paesaggio che l’Appennino tosco-emiliano mi stava regalando.
Fino a Borgo San Lorenzo, al 31° km, le salite erano state lievi, intervallate da alcuni tratti in discesa e altri pianeggianti. A quel punto la salita sarebbe stata ripida e continua, fino a raggiungere la Colla. Laddove mi fossi resa conto che la fatica era troppa e le energie consumate eccessive avrei camminato il necessario per poi riprendere a correre non appena possibile. È qui che Ale ed io ci siamo separati e ognuno ha proseguito per la sua strada.
Il cielo si era leggermente coperto e si era alzato un po’ di vento. Ho cominciato a sentire qualche goccia cadermi sulla pelle. Mi sono fatta passare il gilet antivento da Matteo, più per il timore di prendere un colpo d’aria alla pancia che per la sottile, e quasi piacevole pioggerella. La temperatura era anche scesa di qualche grado, ma per correre andava più che bene.
Mentre i km passavano Matteo ed io continuavamo a parlare. Mi sono resa conto che nonostante ci conoscessimo ormai da qualche anno non sapevo tante cose di lui. D’altronde in genere con il coach si parla di obiettivi, allenamenti, gare e tempi. Invece questa è stata un’occasione per andare al di là della conoscenza tra coach e allieva, e capire un po’ meglio chi fossero Matteo e Sara. Parlare mi ha permesso di distrarmi molto, estraniarmi dalle ansie del contesto e proseguire in totale serenità.
Arrivare ai 42.195m, la distanza della mia amata maratona, ha rappresentato un piccolo importante traguardo intermedio. Ero arrivata alla distanza che avevo corso per ben 9 volte dall’inizio della mia breve ma intensa carriera da maratoneta. Dopo solo pochi km avrei raggiunto la Colla, dove avrei fatto una breve sosta, avrei mangiato qualcosa di diverso da datteri e gel ingeriti fino ad allora e mi sarei cambiata per affrontare con il giusto abbigliamento la notte.
Dopo essermi lasciata alle spalle innumerevoli tornanti, una coda di macchine mi aveva fatto capire che ero quasi arrivata in cima dove una folla di persone era pronta ad accogliermi in tutto il suo calore.
La mia sosta non è stata più lunga di 15 minuti in cui, tra le altre cose, ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con un signore veterano del Passatore. Inaspettatamente ho anche incontrato Tobias, amico e ultra trail runner, anche lui alla sua prima esperienza al Passatore. L’ho dovuto salutare in tutta fretta perché il mio tempo alla Colla era finito: dovevo riprendere il mio viaggio verso Faenza.
Avevo di fronte una lunga e ripida discesa, che contrariamente a quanto si può pensare, fu tutt’altro che semplice da gestire, almeno inizialmente. Sentivo un forte fastidio alle ginocchia, proprio in corrispondenza delle rotule, oltre ad avvertire un dolore alla milza. Era abbastanza normale provare qualche fastidio: il mio corpo doveva riassettarsi e abituarsi alla discesa dopo aver corso quasi 48 km tutti in salita. Ho rallentato un po’ il passo e dopo pochi minuti ogni fastidio è passato.
Non mi sentivo ancora stanca ed avevo ancora perfettamente il controllo di corpo e mente. Erano ormai passate le 21, la luce del sole aveva lasciato posto al chiarore della luna. La campagna è stata inghiottita dal buio che era spezzato solo dalla luce della bici di Matteo e dalle frontali dei concorrenti che incontravamo sul percorso e che pian piano superavo uno ad uno. Ad un tratto ho visto il cartello che segnalava il 50° km e Matteo mi ha chiesto:
“Hai mai corso più di 50 km?”
domanda insolita visto che lui è il coach e lo avrebbe dovuto sapere molto bene. Alla mia risposta negativa lui ha replicato
“Bene, ora sì!”
Al 60° km ho chiesto a Matteo se il cellulare prendesse perché volevo chiamare Stefano, il mio ragazzo, e i miei genitori, per tranquillizzarli un po’ e dir loro che stavo bene e tutto stava procedendo nel migliore dei modi. Con Stefano abbiamo ironizzato sulla situazione facendoci grandi risate e con mia mamma ricordo di aver detto che in fondo mi mancava da correre meno di una maratona.
Se dovessi pensare a qualcosa che mi ha aiutato a correre per tutti quei km quel qualcosa sarebbe sicuramente l’aver cercato di pensare sempre positivo. Quindi il mio pensiero è stato “manca solo meno di una maratona” e non “manca ancora quasi una maratona”. Questo mi ha aiutato ad affrontare l’ultima parte di gara con più energia e grinta.
Un’altra cosa che ho fatto con Matteo è stata guardare al futuro. Così abbiamo parlato dei prossimi obiettivi e di cosa poter fare nel periodo immediatamente dopo il Passatore. Pensare di tornare a correre a ritmi più sostenuti di quelli tenuti negli ultimi mesi, provare una mezza veloce e riaffrontare una maratona alla ricerca di un nuovo personal best mi ha dato una forte scarica di adrenalina, distraendomi dal contesto in cui ero.
Avevo iniziato a vedere Matteo come un amico, un vero amico, quello di cui ti fidi ciecamente e al quale non nascondi nulla. Per questo a un certo punto gli ho detto:
“Posso confidarti una cosa in totale sincerità? Inizio ad essere un po’ stufa di correre”
Avevo pronunciato le parole che credevo non avrei mai e poi mai nemmeno pensato. Io stufa di correre? Matteo era poco sorpreso, e la sua risposta è stata:
“Sara sei stata fin troppo brava, non ti sei lamentata fino ad ora, è normale che tu dica così. Fino a questo momento credevo di aver allenato un’aliena. Ora sei tornata umana”.
Dal 75° km in poi è iniziata la mia prima e unica crisi, che non è stata a livello fisico, ma mentale. Non ne potevo più, mi ero stancata di correre, volevo solo arrivare in fondo e farla finita. Ho iniziato anche a sentire un po’ male alla testa, sensazione a cui sono abituata dopo sforzi intensi. Per ovviare a questo fastidio Matteo mi ha dato una compressa di caffeina, che inoltre avrebbe contribuito a contrastare la stanchezza da sonno.
È a questo punto che ho incontrato nuovamente Ale e Juri. Dopo una crisi inziale durata ben 12 km Ale si era ripreso alla grande. Lo vedevo bene, ero molto sollevata ed essere di nuovo tutti insieme mi faceva sentire meglio, anche se ci siamo divisi poco dopo. Era tempo che anch’io fronteggiassi la mia crisi così come aveva fatto il mio compagno di squadra.
Ormai mancava quasi una mezza maratona, avevo raggiunto gli 80 km. Nel tentativo di darmi un aiuto per andare avanti con più forza è a questo punto che Matteo mi ha dato una bellissima notizia: a mia insaputa, a Faenza, c’erano ad aspettarmi a braccia aperte Stefano e mio papà.
Poiché il mio gps aveva deciso di abbandonarmi prima del tempo, spegnendosi all’82° km, ho iniziato a chiedere di tanto in tanto aggiornamenti sul kilometraggio a Matteo. Passo dopo passo la fatica si faceva sempre più sentire, continuare a correre non mi era mai costato tanto sforzo. La ciliegina sulla torta è stata iniziare a sentire che sotto a entrambi gli alluci mi si stavano formando delle fastidiosissime vesciche, di cui non avevo mai sofferto prima. In questo momento mi è venuto in mente un consiglio di un video motivazionale in cui si diceva, in un momento di difficoltà, di non focalizzare l’attenzione sul problema, ma su una parte del corpo che al contrario sta bene, anche se si fosse trattato della punta del naso o delle dita. E così ho fatto, anziché pensare ai piedi che iniziavano a farmi un male del diavolo ho provato a pensare alle mie dita delle mani che erano in ottimo stato, così come anche la punta del naso.
Ho smesso di fare grandi discorsi con Matteo, e ho cominciato ad essere più taciturna. Arrivata al 90° km mancavano solo 10 km, solo altri 10 km e sarei arrivata. Sentivo che la testa mi aveva quasi completamente abbandonato ma non potevo mollare, non arrivata a quel punto. Avrei dovuto stringere i denti e correre nonostante ogni passo mi causasse un gran dolore. Ho inaspettatamente tirato fuori un po’ di grinta che mi era rimasta non so in quale parte nascosta del corpo e ho iniziato a correre con determinazione aumentando il ritmo. Non mi ha rallentato nemmeno il dolore lancinante di una vescica che era scoppiata. Al 95° km ho bevuto un sorso di tè caldo all’ultimo ristoro presente sul percorso e poco dopo aver ripreso a correre ho chiesto a Matteo
“Ce la farò a correre altri 5 km?”
Immaginatevi la sua risposta.
“Sara, stai scherzando vero? Hai corso per 95 km. Certo che ce la farai a correre 5 km”
Mi sentivo fragile come probabilmente non mi ero mai sentita prima. Avevo paura che quel traguardo non arrivasse mai. Da quel momento ogni km era segnalato con un cartello. Km 96. Km 97. Km 98.
Ero a Faenza.
Con un filo di voce ho chiesto a Matteo di non lasciarmi da sola. Lui con un tono di voce rassicurante mi ha tranquillizzato che sarebbe rimasto con me fino al 99° km per poi lasciarmi correre l’ultimo km da sola fino a piazza del Popolo, dov’era l’arrivo. In prossimità del cartello del km 99 Matteo ha voluto iniziare a congratularsi con me prima di lasciarmi andare e rivederci all’arrivo. Solo il pensiero di essere prossima al traguardo mi causava un’emozione ingestibile tanto era forte. Ho visto Matteo allontanarsi. Ero sola con me stessa. Sono entrata nel centro della cittadina, incrociando qualche persona che mi applaudiva e mi gridava “brava, dai che sei arrivata!” quando a un tratto ho visto in lontananza un viso familiare: era il mio Stefano. Lui mi è corso incontro, mi ha preso per mano e mi ha accompagnato verso la piazza. Avevo il cuore che batteva fuori controllo, Stefano mi parlava ma io non riuscivo a rispondergli perché facevo persino fatica a respirare. Lui però continuava a parlarmi. Mi diceva che l’arrivo era poco più avanti, proprio dove c’era quell’arco gonfiabile rosso. Mi diceva che ero stata bravissima e che avevo fatto un tempo pazzesco.
Non appena avevo fatto ingresso in piazza del Popolo Stefano mi ha lasciato la mano perché corressi gli ultimi 100m da sola, spinta dalle grida e dall’incitamento delle persone che si affollavano dietro le transenne. A quel punto ho lasciato andare tutta la tensione che avevo dentro. Una volta tagliato il traguardo sono scoppiata a piangere, singhiozzando.
Mentre le lacrime mi rigavano il volto ho sentito chiamare il mio nome. Girandomi ho visto Stefano e mio papà dietro la transenna che mi chiamavano a gran voce. Li ho raggiunti con quel po’ di forze che mi rimanevano in corpo, ho buttato le braccia al collo a entrambi e mi sono lasciata andare in un pianto liberatorio. Ho pianto tanto, tanto da spaventare un po’ entrambi, che non capivano perché piangessi così disperatamente. Ero letteralmente distrutta. In quel pianto non c’era solo dolore ma anche gioia e soddisfazione: ce l’avevo davvero fatta. Dopo aver immaginato per mesi e mesi quel momento lo stavo finalmente vivendo da protagonista. Quello era il mio traguardo, la mia vittoria, il mio successo. Per realizzare quel sogno ci avevo impiegato 11 ore 49 minuti e 37 secondi. A soli 27 anni posso dire di essere un’ultramaratoneta.
Una volta calmata ho rivisto e abbracciato Ale, Juri e ovviamente Matteo, che è stato essenziale nelle ore appena trascorse e nel corso di tutti questi mesi di preparazione.
Ora mi sembra passata un’infinità di tempo, sarà che la vita è tornata quella di tutti i giorni tra lavoro e la routine quotidiana. A volte mi domando se sia successo veramente o se si sia trattato solo di un sogno. Poi guardo le foto, il mio pettorale e la mia medaglia, e capisco che è stato tutto reale.
Non so per quanto tempo ancora mi commuoverò ripensando all’arrivo in piazza del Popolo, ripensando a quella me così fragile che è riuscita a portare a termine un’impresa molto più grande di lei. Probabilmente la piena consapevolezza del mio risultato la raggiungerò solo tra un po’ di tempo, ora sono ancora troppo frastornata e incredula.
Penso di non aver mai provato un’emozione così forte alla fine di una gara. Probabilmente perché non si è trattato solo di una semplice gara. Correre la 100 km del Passatore mi ha insegnato che impossibile è solo una parola. Dicendo che qualcosa è impossibile la allontaniamo da noi attribuendole una concezione quasi negativa. Ma se provassimo con tutti noi stessi ad avvicinarci a quell’impossibile guardandolo con altri occhi, ci potremmo rendere conto che ciò che avevamo da sempre considerato impossibile, in realtà, può diventare possibile.