Ci sono eventi che si programmano e attendono per mesi (nel mio caso la maratona di New York che correrò il prossimo 4 novembre) e altri che si presentano all’improvviso. Sono venuta a conoscenza della Vertical Race all’Aprica un po’ per caso, tramite una soffiata di mio papà a cui è capitato di imbattersi in un volantino che promuoveva la gara.
Con la mia famiglia frequento da anni il passo dell’Aprica, situato tra la Val Camonica e la Valtellina, sulle Alpi Orobie. D’estate trovo refrigerio dalla calura cittadina mentre d’inverno mi lancio lungo le piste innevate con il mio snowboard in discese adrenaliniche. Non avrei mai pensato che un giorno avrei risalito a piedi una delle sue piste più celebri: il famigerato pistone della Magnolta. Si tratta di una pista che si articola lungo tutto un versante della montagna arrivando fino in paese, lunga circa 3 km. In gergo sciistico viene categorizzata come pista nera, ovvero con il massimo livello di difficoltà, per pendenza e impegno richiesto nella discesa, sicuramente indicata solo per sciatori esperti.
La Vertical Race di domenica 12 agosto prevedeva due percorsi tra cui scegliere, entrambi con partenza dalla cabinovia della Magnolta, ai piedi del pistone:
- intermedio non competitivo con arrivo in Magnolta in corrispondenza del Ristoro Aprica a 1945m di altezza, per un totale di 750m di dislivello;
- competitivo fino alla Croce del Monte Filone a 2210m di altezza con 1000 metri di dislivello.
Sono dell’idea che se si deve fare una cosa la si fa bene fino in fondo, quindi mi sono iscritta senza indugio alla gara competitiva.
Dato che il percorso sarebbe stato tutto su prato e rocce mi sono attrezzata con un paio di scarpe da trail leggere ma stabili, con un buon grip, che mi potessero aiutare ad avere un appoggio sicuro su qualsiasi tipo di terreno e che avrei potuto sfruttare non solo in occasione del vertical ma anche per gli allenamenti a Montevecchia e in futuri trail: la scelta è ricaduta nel modello Akasha de La Sportiva.
Dopo un po’ di indecisione sull’acquistare o meno i bastoncini, dopo essermi consultata anche con alcuni compagni di squadra esperti della disciplina, ho deciso che per questa mia prima esperienza avrei potuto farne a meno. In caso di necessità, laddove la salita si sarebbe fatta più ripida, mi sarei aiutata con le mani. Non conoscendo la tipologia di gara ho cercato informazioni da diverse fonti per cercare di arrivare il più preparata possibile senza però eccedere in attrezzatura superflua e che sarebbe potuta diventare addirittura di intralcio.
Non ho improvvisato nessuna preparazione dell’ultimo minuto: la “tattica” sarebbe stata quella della dilettante allo sbaraglio, avendo comunque una buona base di allenamenti e gare in altura alle spalle.
La partenza era prevista alle 9:30 alla cabinovia dell’impianto della Magnolta. La domenica mattina mi sono recata un po’ prima alla partenza per ritirare il pacco gara e riscaldare i muscoli giusto con qualche esercizio di stretching. A poco a poco sono arrivati anche tutti gli altri partecipanti, per un totale di 135. Poco prima dello start si è alzato un po’ di vento che ha portato alcune nuvole che hanno coperto il debole sole presente fino a pochi attimi prima. Mi sono posizionata nella retrovia lasciando andare avanti i più esperti, nel tentativo di prendere spunto su qualche strategia per affrontare la gara.
Dopo aver accennato una timida corsa nei primi metri ho iniziato la lunga scalata del pistone. Il cuore ha iniziato a battere più velocemente e ben presto sono andata con il respiro in affanno. Era davvero più difficile di quanto avessi potuto immaginare. Lo sforzo mi ha anche fatto venire piuttosto caldo facendomi pentire della scelta di indossare una maglietta a mezze maniche.
Man mano che proseguivo i polpacci hanno cominciato a bruciare, ma ancor più i quadricipiti. Non me la sentivo né di alzare lo sguardo per guardare quanta strada ancora mancasse da percorrere perché sarebbe stato sconfortante, né di girarmi per guardare indietro per paura di impressionarmi. Ho preferito tenere lo sguardo fisso davanti a me, sulla terra e sull’erba calpestata da chi mi aveva preceduto. Il gruppo di testa ormai era parecchio avanti, ero rimasta praticamente da sola.
Quando ormai mancava poco al raggiungimento del traguardo intermedio del percorso non competitivo ho cominciato a sentire qualche piccola e leggera goccia sulla pelle: stava iniziando a piovere. Quello che ci voleva per rendere tutto ancora più sfidante. In corrispondenza dell’arrivo della cabinovia la salita ha lasciato spazio a un tratto pressoché pianeggiante dove ho azzardato una corsetta. È stata una sensazione stranissima correre dopo tutta quella salita, le gambe erano pesanti e mi sembrava di trascinarle. Anche se con un po’ di difficoltà ho continuato a correre fin dove sono riuscita e la pendenza me l’ha permesso. Non c’era nessuno a fare il tifo, la pioggia aveva fatto scappare tutti. Nemmeno nessun volontario sul percorso. Eravamo solo io, la pioggia e la montagna.
Ripercorrendo anche l’ultimo tratto di pista pensavo che l’arrivo fosse vicino. Quando però ho iniziato a incrociare alcuni runner che erano già sulla strada del ritorno mi è venuto il dubbio che la gara proseguisse altrove. Così spostando lo sguardo ho visto tra le rocce di un sentiero scosceso, alcuni runner che vi si inerpicavano. Mancava ancora l’ultima fatica. Ormai fradicia per la pioggia che non voleva cessare mi son messa a scavalcare e saltare rocce di tutte le forme e dimensioni, sotto l’incoraggiamento dei runner che stavano già scendendo e che mi dicevano di tenere duro perché ormai mancava poco. Ma a me quel poco sembrava non arrivare mai. Continuavo a salire con il pensiero che una volta in cima avrei dovuto ripercorrere lo stesso sentiero anche in discesa. Non erano tanto le forze fisiche che mi stavano abbandonando, ma la forza mentale, quella che ti sostiene durante le difficoltà. Ho ripensato alla Monza-Resegone e al Pra di Ratt, simile al percorso che stavo attraversando. In fondo non stavo facendo nulla di così diverso da quello che avevo fatto in passato. Tenendo occupata la mente, passo dopo passo, alla vista di una bandiera ancorata nella roccia ho capito di essere arrivata. Ho tirato un sospiro di sollievo e ho fermato il gps. Poco meno di 4km per 1000m di dislivello. Ero stanca ma non esausta.
Ho riposato solo pochi istanti per poi rimettermi sulla via del ritorno per non raffreddarmi troppo. Peccato non aver potuto godere del panorama offuscato da una leggera nebbiolina. Ho raggiunto il Ristoro Aprica correndo, approfittando della discesa per sciogliere un po’ le gambe. Ad aspettarmi c’era un cambio asciutto ma soprattutto una ristoro finale con la R maiuscola: polenta taragna con formaggio fuso e una fetta di crostata con marmellata ai frutti di bosco.
Più che una gara mi piace definire questa mia prima vertical un’esperienza che però non mi ha coinvolto fino in fondo perché a me piace correre e in questo tipo di gara si corre poco. Preferisco un trail di kilometraggio maggiore su cui distribuire il dislivello. Ciò non toglie che sia stata una bella soddisfazione risalire il pistone della Magnolta.
Dopo questa piacevole divagazione ritorno in carreggiata e riprendo la preparazione della New York City Marathon, ma non prima di chiudere l’estate con un’incredibile avventura che mi porterà a fine agosto ad Amburgo con il team Reebok a correre la Ragnar Relay.