Un record mondiale. Uno nazionale. La quinta vittoria consecutiva di Eliud. Tutto questo sotto il cielo di Berlino. Io ero lì, sotto lo stesso cielo e sulle stesse strade di Tigst, Eliud e Amanal a correre verso il mio traguardo.
Nella mia griglia di partenza, contrassegnata con la lettera D, con il mio bagaglio di esperienza, guardavo gli aspiranti maratoneti muoversi attorno a me: camminavano, parlavano, mentre io restavo ferma e in silenzio a pensare, seduta sul bordo del marciapiede. Potrei aver ripensato all’incognita della sera precedente, ovvero sul perché in Spiderman -man- si pronunci con la -E- mentre Batman si pronunci con la -A- ma ho optato per rimandare la soluzione del mistero a un altro momento.
Pensavo a tutto senza pensare a niente.
Sapevo esattamente cosa dovevo fare: correre. Correre come avevo fatto nei mesi precedenti in allenamento, da sola e insieme a chi mi ha accompagnato. Dovevo soltanto correre. La preparazione era andata bene. Avevo fatto tutto quello che c’era da fare per arrivare nelle migliori condizioni a quella linea di partenza.
Ero dove volevo essere? Sì, ero esattamente dove desideravo essere. Ero pronta? Sì, mi ero preparata a dovere, con metodo, impegno e dedizione. Ero determinata a raccogliere i frutti del mio lavoro? Eccome se lo ero.
Un risultato a volte può essere prevedibile. Scontato no, prevedibile sì.
L’obiettivo era alla mia portata. Ho tenuto stretto questo pensiero per tutta la gara, rimanendo concentrata su quello che stavo facendo: correre in maniera fluida mantenendo le spalle rilassate, respirare facilmente e rimanere con la mente lucida concentrata sul qui e ora.
L’intenzione era di mantenere la stessa lucidità mentale che mi aveva accompagnato a Londra. Per me era fondamentale ricercare esattamente quelle sensazioni, quelle belle sensazioni che mi avevano portato al traguardo di Londra.
Non ho fatto calcoli, previsioni, pronostici. Ho continuato a correre in maniera razionale gestendo il mio corpo e la mia mente per dominare la gara. Sapevo di dover passare la mezza maratona in un’ora e quarantadue minuti circa. Dopodiché avrei fatto le mie valutazioni su come comportarmi nella seconda parte di gara.
La maratona è un’arte. Ci vuole conoscenza, abilità, pratica, strategia. Se la vuoi correre bene, se la vuoi correre al meglio delle tue possibilità non basta correre, devi sapere come correre.
Patience gets you there faster.
L’immagine di Eliud su un cartellone pubblicitario accompagnato da queste esatte parole è stata una conferma. Dovevo avere pazienza per tagliare più velocemente il traguardo.
Un gel ogni cinque chilometri. L’equivalente di 25g di carboidrati. Il quarto con la caffeina. Poi in prossimità del trentesimo chilometro ne ho buttato giù uno da 40g di carboidrati. A seguire altri due da 25. Per un totale di sette gel e 190g di carboidrati. Ci vuole energia per correre una maratona. Non basta avere il serbatoio pieno in partenza, non sarà sufficiente. Va alimentato con costanza durante lo sforzo.
Stavo correndo bene, mi sentivo bene e tutto stava filando liscio. Questo può spaventare e far perdere il controllo dei pensieri portandoti fuori strada. Ma non ho lasciato che accadesse. Ho continuato per la mia strada. Non avevo tempo per avere paura.
Ho aspettato fino all’ultimo per iniziare con decisione una progressione in cui ho tolto ogni freno spingendo sull’acceleratore dando fondo a ogni residuo di energia che avevo in corpo. Era il momento in cui giocarmi la moneta per raggiungere il mio successo: quella della fatica.
La porta di Brandeburgo era entrata nella mia visuale, ma non era ancora finita. Superata quella c’erano ancora qualche centinaia di metri da percorrere. Ero in apnea ormai da un paio di chilometri ma dovevo resistere. Ero più veloce dei miei pensieri, più forte della fatica.
Dopo essermi letteralmente lanciata sulla linea del traguardo ho stoppato il Garmin e ho fatto una lunga inspirazione. Ho girato il polso e guardato i numeri sul quadrante dell’orologio: 03:21:44. Ho urlato, poi sorriso e infine mi sono commossa. Ho vinto la mia corsa contro il tempo sulle strade di una magica Berlino.
Ci sono numeri che in qualche modo ci descrivono, parlano per conto nostro: l’età, l’altezza, la frequenza cardiaca. Anche questo nuovo personal best parla di me: di come sia cresciuta, come donna e come maratoneta. Più volte Matteo, il mio coach, nelle settimane precedenti l’evento mi ha sfottuto dicendomi che fossi diventata più saggia. Nonostante il suo tono scherzoso so che c’era un fondo di verità nelle sue parole. La maratona di Berlino lo ha dimostrato.
Quella che ha corso è una Sara adulta, capace di sfruttare a suo vantaggio gli insegnamenti che ha ricevuto nel passato, talvolta ricevendo sonori ceffoni che l’hanno fatta tornare a casa con la coda tra le gambe. La corsa mi ha fatto crescere, rendendomi la donna, runner e maratoneta che sono oggi. Una fiera maratoneta da 3 ore e 21 minuti.