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Seconda prova: il Gavia (doppio!)

MatteoCiao, tutto ok? Domani Gavia! Se vogliamo fare doppio vieni a Bormio alle 9, se no 9:30”.

Io “Sarò a Bormio per le 9, solito parcheggio”.

10 luglio

La pedalata è fluida, nonostante lo Stelvio di due giorni prima. Sembra che le gambe non ne abbiano memoria. Meglio per me. Pedalo e chiacchiero con Matteo, mentre conduco un riscaldamento lungo circa 13 km, quelli che collegano Bormio a Santa Caterina, una frazione del Comune di Valfurva. 

Attraversata la cittadina ha inizio la strada che ci avrebbe condotto al Passo Gavia. La carreggiata si restringe, le pendenze si fanno più impegnative, gli alberi a bordo strada ci concedono un po’ di ombra. I discorsi virano sui progetti per il futuro, di cui non farò spoiler, è ancora presto. 

Procediamo affiancati, l’assenza di traffico ce lo concede. Seguono una serie di tornanti stretti e ripidi. Li affronto una alla volta, dosando le energie. A un certo punto gli alberi si diradano e aprono la visuale sulle montagne all’orizzonte. Matteo mi confessa di preferire questo tipo di panorama a quello dello Stelvio. Io penso che sia una bella lotta. 

Incrociamo in direzione opposta altri ciclisti che stanno scendendo. Un po’ li invidio. Li saluto mentre mi chiedo quanto manchi ancora alla cima. Evito di chiederlo a Matteo, so che mentirebbe, come ogni ciclista. Una delle prime cose che mi hanno insegnato è di diffidare quando un ciclista dice che dopo quella curva sei arrivato, la salita è finita e frasi del genere. I ciclisti sono bugiardi al contrario. 

Mi sentivo bene, ogni parte del mio corpo era ben ricettiva allo sforzo che stavo facendo. La strada ha iniziato leggermente a spianare, ed io a riprendere fiato. Dopo qualche altra piccola rampa si intravede il lago Bianco e poco più avanti il rifugio Bonetta. Ero talmente presa dalla conversazione che a momenti non mi rendo nemmeno conto di essere arrivata. Eravamo in cima al passo Gavia.

Ci siamo fermati il tempo di una barretta e di scattare un paio di foto di rito. Sarebbe stato divertente confrontarle con quelle scattate a fine giro, probabilmente con facce un po’ meno “fresche”. Indossiamo i jacket antivento e prendiamo la discesa in direzione Ponte di Legno. 

La discesa non mi piace. Non mi sento ancora abbastanza sicura e padrona della bici, devo migliorare la tecnica e imparare a usare i freni. Non sono nemmeno una fan della velocità. Insomma, preferisco di gran lunga la salita. 

Resto concentrata con gli occhi fissi sulla strada per schivare buche e avvallamenti. L’asfalto non è dei migliori. Ma la parte peggiore è il passaggio in galleria, completamente al buio. Poche centinaia di metri senza vedere nulla. Ho ridotto la velocità al minimo, tenendo premute le dita sulle pinze dei freni, sperando di vedere quanto prima la luce. 

Una volta fuori la tensione si è allentata e ho proseguito nella discesa che mi è sembrata non finire mai. Nel frattempo un pensiero fisso: a breve avrei ripercorso tutta quella strada, ma in salita. 

Matteo ed io arriviamo a Ponte di Legno. Giriamo le bici e ripartiamo senza indugi. Sono circa le 12 e fa molto caldo. Riprendere a carburare in salita dopo una lunga discesa richiede un po’ di tempo. Noi ne approfittiamo per fare un check degli integratori. Non me ne erano rimasti molti, un gel e qualche albicocca secca. Un po’ poco per gestire tutta la salita. Fortuna che Matteo aveva qualche scorta in più da potermi passare in caso di bisogno. Ne ho tratto come insegnamento per le pedalate future che è sempre meglio partire con qualcosa in più piuttosto che con qualcosa in meno. 

Il sole batteva fortissimo e di ombra non se ne intravedeva. Le pendenze hanno iniziato a rimettermi alla prova. Non mi era concessa tregua. La strada continuava a salire. Avevo perso brillantezza su tutti i fronti, la stanchezza iniziava a farsi sentire. Guardavo la ruota anteriore della bici procedere a fatica, la stessa che stavo facendo io per cercare di spingerla in avanti. Matteo era in testa, di tanto in tanto mi chiedeva se andasse tutto bene. Nessuno dei due aveva più sufficiente fiato per chiacchierare come nell’andata. Meglio tenerlo per concludere la salita e continuare ad ingannare il tempo guardando il paesaggio, la miglior distrazione alla fatica. 

E un certo punto eccola di nuovo lì ad aspettarmi, la galleria buia, questa volta da percorrere in salita. Mi metto dietro a Matteo e cerco di stargli a ruota. Anche a distanza di tempo non so dire se sia stata peggiore la sensazione di procedere al buio in discesa o in salita. So solo che in entrambi i casi non è stato per niente piacevole. 

Riemersa dalle “tenebre”, la luce fuori dalla galleria era quasi accecante, nonostante gli occhiali da sole. Alla mia sinistra il lago Nero. Era il mio punto di riferimento, sapevo che arrivata a quel punto mancava poco. Non mi era rimasto più nulla: avevo finito l’acqua, cibo, energie fisiche e mentali. Ero agli sgoccioli. Mi sentivo bollire sotto quel sole che quasi bruciava tanto era forte, sicuramente più forte di me. 

Ogni tornante superato era strada in meno da percorrere. Uno via l’altro sono riuscita ad arrivare alla fine, laddove la strada spianava, e da dove in lontananza vedevo per la seconda volta il rifugio Bonetta.

Questa volta ci concediamo una sosta più lunga, con un meritato ricco pasto per gratificarci della sfacchinata. Avevo affrontato la pedalata con il dislivello maggiore percorso fino a quel momento: 87 km con 2600m d+. Una prima volta sul Gavia da non dimenticare.

Sono tornata altre due volte sul Gavia, dal versante di Santa Caterina. Entrambe le volte però è stata una tappa all’interno di giri che hanno previsto il passaggio in più di un passo. È comunque sempre stato bello tornarci. Anche se il doppio Gavia conserverà un ricordo speciale, legato anche a quel messaggio ricevuto da Matteo, a fine giornata, che diceva:

“… e complimenti, perché sta roba la fa solo chi ha testa e gambe!”.

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Prima prova: lo Stelvio
Terza prova: Cancano

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