Ancor prima di partire sapevo che ci sarebbe stata una vita pre e una post Chicago. Il viaggio in America e la maratona sarebbero stati lo spartiacque degli eventi. Non sapevo cosa aspettarmi e per una volta non me ne sono preoccupata. Non avevo un vero e proprio obiettivo a cui puntare, solo delle indicazioni di massima e una speranza: quella di riuscire a correre bene e con delle belle sensazioni. Volevo ritrovare la Sara dell’anno scorso, che aveva corso la maratona di Londra, Berlino e Valencia una meglio dell’altra, non solo in termini di crono.
Ho messo a calendario la maratona di Chicago molto presto, non appena è stata accettata la mia domanda di ammissione che ho inviato con il tempo di qualifica ottenuto a Berlino. Sapendo con così largo anticipo che avrei corso questa gara avrei avuto tutto il tempo di pianificare una programmazione precisa e puntuale. Ma non è andata così. La verità è che ho iniziato tardi a dedicarmi alla preparazione specifica per questa maratona. Hanno avuto la precedenza le gare estive, quasi tutte per lo più improvvisate come la Tre Campanili e la Filippide, e i fuori programma dell’ultimo minuto come la GrandArdenno trail. Ho iniziato a focalizzare l’attenzione su Chicago da fine agosto, quando è arrivato il primo risultato inaspettato: il PB sulla mezza maratona.
Settembre è stato un mese proficuo. Gli allenamenti si sono susseguiti senza intoppi, nel migliore dei modi, senza che questo mi condizionasse e mi portasse a fare delle previsioni sulla gara. La verità è che non ci ho proprio pensato. Può essere che questo mi abbia fatto arrivare con maggior serenità al giorno della gara, senza ansie né paure. Sono arrivata sulla linea di partenza con la testa leggera ma con una voglia incontenibile di correre.
Al mio fianco nei primissimi chilometri c’è stata Laura. Siamo partite insieme, avventurandoci in mezzo ai grattacieli che ci hanno da subito circondato, facendo andare in tilt il segnale dei nostri orologi gps. Non avevamo la certezza del ritmo che stavamo tenendo, ma ormai posso dire di essermi abbastanza abituata a correre a sensazione dopo le esperienze fatte nelle gare di quest’estate.
Passando accanto a un ristorante italiano ho letto sul muro la scritta “volare”. Con un mezzo sorriso ho immaginato che fosse Matteo di DonKenya a dircelo. Lo dico a Laura e con la coda dell’occhio vedo che anche lei accenna un sorriso. Dopo qualche chilometro, mentre ci stavamo lasciando alle spalle Lincoln Park, Laura ha rotto il silenzio.
Sara, se fossi in te io continuerei a correre costante a questo ritmo. Poi, verso la fine, se senti che ne hai ancora, accenni a una piccola progressione. Non trattenerti ora. Osa, vai, CORRI!
Io e Laura non ci conosciamo da tanto tempo. Ci siamo presentate alla staffetta 24x1h organizzata, guarda caso, proprio da DonKenya a fine maggio al Campo XXV Aprile. Da lì ci siamo tenute in contatto, rivedendoci in un altro paio di occasioni. Avevo accennato a Laura del fatto che avevo una mezza intenzione di cercare di correre la maratona in progressione, partendo con un ritmo più conservativo per poi incrementarlo nella seconda metà. Ma il ritmo che stavamo tenendo era già troppo veloce per riuscire a rispettare quei piani, piani che lei mi stava suggerendo di cambiare. Ai suoi occhi stavo correndo bene e avevo fatto dei buoni allenamenti nell’ultimo periodo. Non c’era motivo di trattenersi.
Se non ci fosse stata la spinta motivazionale di Laura non credo che avrei azzardato. Lei ha insinuato in me l’idea di potercela fare, di poter raggiungere un risultato che sarebbe andato oltre le mie aspettative. Dovevo iniziare a crederci anch’io.
Dentro di me c’è stato come uno switch che ha messo in ombra tutte le paure e insicurezze e ha portato in primo piano la forza e la determinazione di chi vuole sognare in grande. Sapevo di correre sul filo del rasoio, sapevo che ogni passo avrebbe potuto essere fatale e cambiare completamente l’andamento della gara. Potevo spegnermi da un momento all’altro, senza preavviso. Lo sapevo, motivo per cui sono stata costantemente in allerta per evitare in tutti i modi che accadesse. Ho preso un gel 100 prima di partire e poi ho alternato un gel 160 e un gel 100 ogni 6km, ogni 5 una volta superata la metà della gara. Tutti i gel che ho preso sono solo e rigorosamente Maurten, che da un anno a questa parte mi supporta in allenamento e in gara. Nella seconda metà della gara i gel 100 li ho sostituiti con due gel 100 alla caffeina per dare un boost alla mente e aiutarla a rimanere lucida. Stavano per arrivare i chilometri in cui sarebbe stata la testa a prendere il comando della situazione.
I quadricipiti si stavano indurendo, i bicipiti femorali irrigidendo, piedi e caviglie iniziavano a infastidirmi leggermente. Mancava poco ma al tempo stesso mancava troppo per resistere in quelle condizioni, che non sarebbero sicuramente andate migliorando. Ma come avevo letto lungo il percorso su un cartellone pubblicitario della Nike, sponsor della maratona:
At this point the only thing to do is keep going being a believer.
Dovevo continuare a crederci e resistere ancora “solo” per qualche chilometro. I cartelli si susseguivano con le miglia e i chilometri mancanti. 24° miglio. 25° miglio. Ultimi 800m. Ultimi 400m. Ed eccola lì, ad aspettarmi un’innocua salitella pronta a infliggermi delle profonde coltellate in entrambe le gambe proprio a pochi passi dal traguardo. Ultimi 200m.
Alla mia destra e alla mia sinistra oltre le transenne sentivo gli schiamazzi e gli incitamenti dei supporter presenti. Ho allungato i passi, facendomi salire il cuore in gola correndo quasi in apnea per quegli ultimi 200 metri. Ho superato la linea del traguardo dei 42 chilometri e 195 metri in 3 ore e 14 minuti esatti, non un secondo di più non un secondo di meno. O’clock.
Mi tremavano le gambe quasi da far fatica a mantenere l’equilibrio, vuoi per l’emozione, vuoi per lo sforzo. Non scriverò “non potevo crederci”. Scrivo invece che ci credevo eccome, e ci ho creduto dal primo all’ultimo metro, fino al momento in cui ho stoppato il Garmin e ho letto quella sequenza di numeri, con quel 4 seguito da un doppio zero. 4 come il fatto che Chicago è stata la mia quarta maratona del circuito Abbott World Marathon Majors. 4 come le stelle raffigurate sulla bandiera della città. 4 come i voli presi per raggiungere Chicago, dopo ritardi, cancellazioni e coincidenze perse.
Nel 2016 ho corso la mia prima maratona in 3 ore e 44 minuti. Domenica 13 ottobre ho corso la mia diciassettesima in 3 ore e 14 minuti. Ora mi manca da compiere l’ultimo step, probabilmente il più duro: limare un minuto dopo l’altro nel tentativo di avvicinarmi al muro delle 3 ore. E quello sarà un altro gran spartiacque, ma non è questo il momento di pensarci.
Mentre scrivo sono sull’aereo di ritorno. Accanto a me c’è il Canzi, il mio amico portafortuna. Gli ultimi due personal best li ho raggiunti in sua presenza, sia in mezza maratona che in maratona. Forse il fatto di non parlare eccessivamente e in maniera ossessiva e maniacale della gara nei giorni precedenti mi ha fatto affrontare la situazione con maggior spensieratezza, senza ansia da prestazione, semplicemente con la voglia di correre e fare del mio meglio.
A Chicago Willy ha corso la sua prima maratona del circuito Major e indovinate un po’? Sta già pensando di programmare la seconda delle cinque mancanti. Ce lo aspettavamo? Sì, ce lo aspettavamo. Al momento è solo un tantino terrorizzato all’idea di rivivere l’esperienza avuta durante il passaggio in China Town per via dei crampi che l’hanno costretto a fermarsi a più riprese. Ora al solo sentire nominare China Town fa una smorfia di dolore. Gli passerà.
L’altra sera si è iscritto alla lotteria della maratona di Berlino su consiglio di Marco, amico di Gian. Abbiamo fatto comunella e trascorso parecchio tempo tutti e quattro insieme: abbiamo festeggiato, bevendo e mangiando, domenica sera e anche lunedì, girato in lungo e in largo per la windy city in maniera del tutto naturale e spontanea, come se avessimo sempre vissuto lì, chiacchierando dei nostri progetti e sogni futuri, di corsa e non.
Chicago è stata una straordinaria parentesi di vita. È scattata la magia fin dal primo istante, quando l’ho guardata con gli occhi curiosi di chi osserva qualcosa che ancora non conosce ma che ben presto diventerà familiare. Come le vie e le strade che ho attraversato di corsa prima, durante e dopo la maratona: il riverwalk dove sono andata a correre il primo giorno, le strade della città che hanno iniziato ad emozionarmi già il sabato mattina durante la Abbott Chicago 5K, la shakeout run ufficiale della maratona. Emozioni che si sarebbero amplificate ai massimi livelli la domenica mattina, nel corso della gara. Chicago mi ha accolto come un’amica che ti ospita a casa sua per qualche giorno, un’amica che ti fa conoscere il suo mondo, nel bene e nel male.
Ora sono in volo sull’Oceano Atlantico e mi domando chi e cosa ci sarà ad aspettarmi una volta atterrata a casa. Ritroverò le mie certezze e i miei punti fermi mentre si faranno strada delle novità che sarò pronta ad accogliere, ricordandomi che ogni tanto bisogna osare. Da domani si torna alla quotidianità, a scrivere di corsa e a lavorare sui prossimi progetti e obiettivi che sono più vicini di quanto si possa credere. Ma non prima di aver festeggiato il mio nuovo personal best sulla maratona con tutte le persone a me più care che hanno fatto il tifo da casa!
P.S. C’è un antefatto che vale la pena essere raccontato. Si tratta di un incontro avvenuto attorno a Parco Sempione durante il mio ultimo allenamento a Milano prima di partire per Chicago. Io stavo correndo e Livio, un signorotto che avrebbe potuto essere benissimo mio nonno, stava pedalando sulla sua bicicletta. Dopo averlo superato Livio mi raggiunge e si accosta a me. Mi fa qualche complimento e poi mi domanda se gareggio. Sentendo della mia partecipazione alla maratona di Chicago mi ha rivelato di essere una specie di porta fortuna vivente. Avrei dovuto pensare a quell’incontro come un segnale di buon auspicio per la maratona perché lui era solito portare bene.
Io credo nel destino. Quel giorno sarei dovuta andare a correre a un altro orario e invece ho posticipato. Generalmente corro attorno a Parco Sempione in senso orario, invece quel giorno ho deciso di correre in senso antiorario. Una serie di scelte mi hanno portato a incontrare il signor Livio, una persona che mi ha svoltato la mattinata e che, a questo punto, potrebbe veramente avere qualche effetto positivo sugli altri. Suggestione? Può essere. Ma a me piace pensare che quell’incontro non sia stato casuale, così come non lo è nessun incontro. C’è un motivo per cui entriamo in contatto con alcune persone. Spetta a noi scoprire quale sia il perché.
Grazie signor Livio per avermi portato fortuna!