[…] Armentos sei tutta orecchie? Io e Tia stiamo pensando di fare Roma no-stop a inizio luglio, ti interessa?
Mi avrebbe potuto interessare attraversare mezza Italia in bici con le pause ridotte all’osso, pedalando anche di notte per cercare di raggiungere Roma in un’unica lunga tappa?
Questa volta il punto non era se mi interessasse o meno, quanto se fossi stata in grado di farlo. Ho sottoposto il mio corpo a sforzi intensi e prolungati nel corso di questi anni, affrontandoli sempre con una buona dose di fiducia e ottimismo. Questa volta non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di aver fatto il passo più lungo della gamba.
Per pura scaramanzia non ho voluto dirlo a nessuno. Le persone che sapevano della partenza si contavano sulle dita di una mano.
Venerdì 1 luglio alle ore 6 Davide, Mattia ed io siamo partiti.
Lodi. Fidenza. Il Passo della Cisa. Procedo per micro obiettivi. Sarzana. Massa e da qui qualche chilometro lungo mare prima di raggiungere Pisa.
A cena una brutta notizia. Davide non avrebbe proseguito, aveva deciso di fermarsi. I brividi e la poca lucidità davano da pensare che avesse preso un’insolazione durante la giornata.
Non credo alle persone che dicono “ti capisco” perché nessuno può capire cosa succede dentro di noi in determinati momenti. Siamo tutti diversi e per quanto si possano vivere situazioni simili nessuno sarà mai in grado di capire il nostro stato d’animo solo per il semplice fatto che gli altri non sono noi.
Quel che ho potuto fare prima di salutare Davide dopo essermi accertata che fosse in grado di raggiungere un hotel in sicurezza è stato abbracciarlo e dirgli che ci saremmo rivisti l’indomani… a Roma.
Alle 22 circa Mattia ed io ci siamo rimessi in strada. La traccia ci ha portato verso l’entroterra, su strade secondarie illuminate solo dalle nostre luci. Con più di 300 chilometri già percorsi pedalavo a mente lucida in allerta qualora avessi iniziato a percepire qualche primo segnale di cedimento, fisico o mentale.
Ero preoccupata. La strada da percorrere era ancora tanta, affrontare la notte non sarebbe stato semplice e la mia testa non concepiva l’idea di non arrivare fino in fondo.
Non significa essere forte, tenace, determinata. Significa non saper accettare di non farcela, dover ammettere di non riuscire a fare qualcosa. Questo è il mio limite. Devo farcela a costo di sfinirmi, ridurmi alla stregua delle forze, senza però mai mettermi in pericolo.
Ho cercato qualche argomento di dialogo con Mattia. Parlare ci avrebbe aiutato a combattere il sonno. Discorsi spicci, niente di filosofico.
Verso mezzanotte e mezza senza sapere esattamente dove fossimo ci siamo fermati per una pausa veloce. Mattia fa una breve ricarica al suo ciclocomputer, io scarto uno dei plumcake comprati insieme a Davide in un discount a Massa, lo mangio e mi stendo 5 minuti sul marciapiede.
Il cielo era pieno di stelle ma della luna nemmeno l’ombra. Chiudo gli occhi e cerco di ascoltare il mio corpo. Quel corpo che fino al quel momento è sempre riuscito a stare al passo con la mia mente.
Sapevo che prima o dopo gli occhi sarebbero diventati pesanti e sarebbe sopraggiunto il sonno. Quando Mattia mi ha detto di sentire le gambe non rispondere più bene e di essere stanco abbiamo deciso di comune accordo di fermarci. Scartata l’idea iniziale di accamparci su un prato e dormire dentro un sacco a pelo abbiamo cercato un hotel nelle vicinanze. A patto che ne avessimo trovato uno alle 2:30 di notte.
Dopo aver chiamato 5 strutture e aver quasi perso le speranze di poter trovare un letto su cui dormire per un paio d’ore ecco che l’Hotel Villa San Lucchese di Poggibonsi ci risponde dandoci la buona novella: avevano una camera pronta per noi.
Riuscire a dormire quelle due ore, dalle 3 alle 5, farsi una doccia, bere un caffè e mangiare una brioches calda mi ha fatto ripartire con il piede giusto.
Una strada chiusa per lavori e un ricalcolo del percorso un po’ più complicato dello sperato ci hanno fatto perdere tempo. Tempo prezioso in cui avremmo potuto guadagnare qualche chilometro prima che il caldo iniziasse a toglierci liquidi ed energie.
Attraversare l’entroterra Toscano è stato un calvario. Siena. Buonconvento. San Quirino d’Orcia. Terre tanto immense quanto desolate. Abbiamo trovato dell’acqua solo nelle macchinette automatiche di un paio di distributori di benzina e una sola fontanella segnalataci da alcuni ciclisti locali.
Tutto questo non era salutare. Decidere di mettersi in viaggio per più di 600 chilometri con una giornata con allerta meteo per temperature da bollino rosso non era stata una scelta salutare.
Mentre stavo pensando a questo ho visto in lontananza due cartelli, uno sopra l’altro. Erano i cartelli che segnavano i confini regionali. Non ho trattenuto le urla.
“SIAMO ARRIVATI NEL LAZIO!”
Nessun auditore in ascolto nei dintorni se non il povero Mattia. L’ho visto scuotere la testa ma sono sicura di avergli strappato un sorriso.
Superato il lago di Bolsena e a seguire i comuni di Valentano e Piansano, siamo finalmente arrivati a Tuscania dove ci siamo fermati per “pranzo” (ore 15).
Mancavano 100km, metro più metro meno. La strada asfaltata era infuocata e continuava a salire e scendere senza interruzione di continuità.
Pedalavo al rallentatore. Sentivo la testa esplodermi dentro al casco. L’acqua nella borraccia era poca e bollente. Avevo un phon acceso che mi soffiava aria calda in faccia senza nessuna pietà. Attorno a me non c’era niente e non si vedeva passare anima viva. Ero sul filo di un rasoio.
Al primo paese alla vista di una fontanella ho quasi creduto di avere un’allucinazione. Ho urlato a Mattia di fermarsi. Mi sono tolta il casco, gli occhiali, le cuffiette e ho buttato la testa sotto l’acqua corrente per almeno 30 secondi. Ho ripetuto la stessa operazione per almeno un paio di volte.
Raggiunti i 600km ho iniziato a fare il conto alla rovescia.
Meno sessanta, meno cinquanta, meno quaranta.
Sul lago di Bracciano ci è venuto incontro il doc. Arrivato a Roma con un treno locale ci ha raggiunto per scortarci nei chilometri finali di questo lunghissimo viaggio attraverso l’Italia.
Il malessere che lo aveva costretto a fermarsi a Pisa era ormai solo un ricordo. Mentre pedalavamo ho iniziato a raccontargli qualche aneddoto delle ultime ore.
“Però stai bene dopo seicento chilometri!”
Essere di nuovo tutti e tre insieme ormai alle porte di Roma mi aveva tirato molto su di morale. Seppur con il morale alto ero comunque sfinita, senza più la minima voglia di far andare avanti quel mezzo su due ruote su cui ero seduta ormai da troppe ore.
Non mancava molto ma per me mancava sempre troppo. Non ne potevo più.
“Cinquecento metri e siamo arrivati”
Ho visto Davide e Mattia fermarsi. Mi sono guardata intorno. Eravamo in piazza del Vaticano.
Eravamo arrivati.
Dopo 664km e 4940m di dislivello eravamo arrivati nella città eterna.
Non era scontato farcela. Sono partita senza certezze e con infiniti dubbi. Le incognite e gli inconvenienti che si potevano presentare lungo il percorso erano davvero troppi, ma se avessi iniziato a prenderli in considerazione non mi sarei nemmeno messa in viaggio.
Non c’è stata una preparazione specifica. Non c’è stata una strategia da mettere in atto. Non c’è stato nemmeno uno specifico piano alimentare. Ho seguito l’istinto e i segnali che il mio corpo mano a mano mi ha lanciato.
Come in uno spettacolo di improvvisazione l’attore cerca di intrattenere il pubblico mettendo sul palco le sue doti migliori, io sono metaforicamente salita su un altro tipo di palco improvvisando uno spettacolo di cui non conoscevo il copione. Ho improvvisato.
Come quando a scuola vieni chiamato interrogato dalla prof senza aver studiato. Devi cercare il modo di portare a casa la sufficienza. La mia sufficienza non è un 6 scritto a penna sul libretto. La mia sufficienza sono quei 664km che mi hanno fatto arrivare nella capitale d’Italia in 27 ore e 23 minuti e 42 secondi.
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A chi c’è stato dico grazie! Luca, Slpoline, Davide, Mattia.