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Amsterdam Marathon: la mia decima maratona

Amsterdam è la città degli zoccoli olandesi, delle biciclette, dei canali, dei mulini a vento, dei campi di tulipani e anche di qualcos’altro… Ma per me rimarrà per sempre la città della mia decima maratona.

Non ero mai stata ad Amsterdam. Prima di partire mi ero fatta un’idea cercando di assorbire quante più informazioni possibili dalle persone che ci erano già state, e che magari ci avevano anche corso.

L’organizzazione della logistica è stata impeccabile: avrei alloggiato all’Olympic Stadium Hotel, esattamente di fronte all’Olympic Stadium che avrebbe visto sia la partenza che l’arrivo della maratona. Non avrei potuto essere più comoda di così.

Ho trascorso una vigilia della gara esemplare: volo dall’Italia in tarda mattinata, arrivo in hotel per posare la valigia, pranzo, ritiro del pettorale e passeggiatina nell’Expo, di nuovo tappa in hotel per riposare un po’ e infine cena presto. Il maratoneta, specialmente il giorno prima della gara, è come un neonato: deve rispettare, per quanto possibile, gli orari dei pasti, fare il riposino pomeridiano e andare a letto presto.

Sarebbe stato tutto perfetto se non fosse stato per un fastidio al polpaccio destro sopraggiunto con un pessimo tempismo sabato mattina. Lo stesso polpaccio che mi aveva dato problemi a fine maggio nella settimana in cui avrei corso il Passatore. Dopo averlo curato a colpi di taping e riposo forzato per qualche giorno era andato a posto. Si trattava di una semplice, ma antipatica, contrattura che è passata così com’è arrivata. Mai avrei pensato di doverla gestire ancora una volta, specialmente il giorno prima della gara.

Ho cercato di mantenere la calma e gestire la situazione: su consiglio di Claudio, il mio massaggiatore, ho indossato le calze da recupero dopo aver applicato con un lieve massaggio del Cetilar crema. Dovevo pensare positivo, l’indomani tutto sarebbe passato e sarei riuscita a correre al meglio delle mie possibilità.

Quando domenica mattina è suonata la sveglia erano le 6, e fuori era ancora tutta buio. Ho spostato le tende della vetrata della mia camera e ho osservato l’Olympic Stadium ancora in uno stato di quiete: dopo poche ore sarebbe pullulato di runner in trepidante attesa della partenza.

Essere così vicina allo stadio è stata davvero una mossa vincente, in questo modo ho evitato la frenesia del dover fare tutto di fretta con il timore di far tardi. Con calma mi sono lavata, vestita, ho fatto colazione e c’è stato persino tempo di svolgere con Elena, mia compagna di stanza insieme a Cristina, un mini trattamento ayurveda per allontanare dal corpo le tensioni e riattivare i principali punti di energia.

Il polpaccio mi dava ancora fastidio. Consapevole che non sarebbe stata la soluzione ai miei problemi ho preso un Oki. Il pensiero che durante la gara il male diventasse insopportabile mi terrorizzava. Con un antidolorifico in corpo ho pensato che lo avrei potuto sopportare (in realtà in quel caso sarebbe servito a poco). O forse quella bustina serviva più che altro a esorcizzare la paura nella mia mente.

Verso le 9 Tony, Angelo, Melo, Dome, Davide, IL Motta, Cri, Elena ed io ci siamo incamminati verso le griglie di partenza. La stessa compagnia della New York City Marathon, un anno dopo di nuovo insieme per correre ad Amsterdam.

La temperatura era frizzantina, ma non ho desistito dall’indossare la canotta con un paio di manicotti. Se le previsioni meteo che avevo controllato erano giuste, con 15° mi sarei acclimatata in fretta. Raggiungere la griglia è stato più complicato del previsto a causa di un ingorgo creatosi all’ingresso dello stadio, il primo di molti. La maratona aveva fatto sold out delle iscrizioni. A due minuti dallo start previsto alle 9:30 sono riuscita ad entrare nell’Olympic Stadium. Con il naso all’insù per ammirare le tribune gremite di gente ho proseguito fino alla griglia rosa, la mia, e ho lasciato che le emozioni di quel momento mi invadessero e mi caricassero.

Ho seguito la partenza dei top runner dallo schermo posizionato in mezzo alla pista di atletica, la stessa pista di atletica che avrei solcato anch’io solo pochi minuti dopo. Ho mosso i primi passi di corsa con cautela, perché avevo paura di sentire male al polpaccio. Ho sentito che non faceva male, ma ho sentito anche che non era a posto. Ho deciso di non pensarci più e concentrarmi solo a correre.

Mi sono lasciata lo stadio alle spalle dopo aver fatto mezzo giro al suo interno, ci sarei tornata in seguito per concludere la mia maratona. Cerco il ritmo ma all’improvviso, dopo soli 500m vedo che i runner davanti a me frenano bruscamente alzando le mani in prossimità dell’arco gonfiabile di uno sponsor.

Ci eravamo fer-ma-ti.

Incredula mi giro cercando con lo sguardo Davide, Dome e Melo che erano partiti insieme a me. Non mi era mai capitato di bloccarmi durante una gara a causa di un restringimento della strada. Il caso ha voluto che mi capitasse per la prima volta proprio ad Amsterdam, dove ogni secondo si sarebbe rivelato prezioso per raggiungere l’obiettivo che mi ero posta: finire sotto le 3 ore e 30 minuti.

Superato l’imbuto ho ripreso a correre, zigzagando tra i runner per cercare di mantenere il mio passo, operazione che stava diventando più difficile del previsto. Specialmente nei primi km le strade si allargavano e si stringevano, costringendoci a rallentare di continuo. Dome era ancora al mio fianco, e mentre attraversavamo il Rijksmuseum, il noto passaggio che collega il centro di Amsterdam con il sud della città, cercava in tutti i modi di farmi star calma dato che la runner milanese imbruttita che è in me stava avendo la meglio. Mi suggeriva di scacciare la negatività e conservare le energie per il seguito della gara. È vero che stavo un po’ borbottando, ma lo facevo comunque sorridendo, perché la felicità di essere dov’ero a fare quel che amavo era comunque più forte di qualsiasi imprevisto.

Nel frattempo i km scorrevano e la città aveva lasciato il posto prima al verde del parco Vondelpark e poi alle rive del fiume Amstel. Qui mi attendevano circa 12 km sommando il tratto di andata e quello di ritorno. Ad intrattenerci, oltre la musica e il tifo delle persone, c’erano ragazzi che improvvisavano sospesi in aria grazie a dei mini jet fissati ai piedi, piccoli spettacoli di flyboard sopra le acque del fiume.

Dal 24° in poi il percorso mi ha riportato sulle strade cittadine, in particolare nella Zuidas, il quartiere finanziario della città. Qui c’erano ad aspettare me e tutti i miei compagni le nostre supporter: Valentina, Alice e Laura, in ordine la cognata, la figlia e la sorella di Elena. Vederle mi ha infuso una bella scarica di adrenalina, preziosa arrivata a quel punto della gara, quando iniziavo a sentire scemare le energie.

Tenevo monitorato il ritmo medio a ogni km. Fino a quel momento tutto stava procedendo come da copione, anche se una volta sorpassato il 33° km ho capito che non me la sarei cavata così facilmente come era successo nella maratona di Pisa. Iniziavo a essere stanca, e da quel momento in poi ho realizzato che avrei dovuto aggrapparmi a qualsiasi pensiero positivo pur di non crollare.

Avanti di quel passo probabilmente sarei anche riuscita a terminare nel tempo che avrei voluto, ma sulla mia strada verso il traguardo, al 37° km, si è messo un cavalcavia che mi è sembrato infinito. È stato come ricevere una bastonata sulle gambe. Da qui è stata una vera lotta per non lasciarmi andare, mi sentivo davvero esausta, senza più un briciolo di carburante. Agli ultimi due ristori ho interrotto la corsa per bere un po’ d’acqua camminando, cosa che non faccio mai per non perdere tempo ma sentivo di averne bisogno. Nel momento in cui mi sono fermata ho sentito irrigidirsi i quadricipiti insieme a delle leggere fitte al polpaccio. Dovevo ripartire immediatamente.

Tornassi indietro rifarei ancora quelle due ultime brevi soste. Ho ascoltato quello di cui aveva bisogno il mio corpo e l’ho assecondato. Per quegli ultimissimi km mi è sembrato di trascinarmi seppur non stessi correndo molto più lenta del resto della gara, ma le sensazioni si erano completamente ribaltate.

Sapevo esattamente quanto mancava alla fine perché avevo rimboccato lo stesso percorso dei km iniziali. Dovevo resistere. L’incitamento delle numerose persone nella zona dell’arrivo è stato prezioso. Sentire pronunciare il proprio nome, anche se da perfetti sconosciuti, seguito da frasi motivazionali è il miglior booster che si possa ricevere.

C’ero quasi, ero di nuovo dentro lo stadio, sulla pista di atletica. 500m, poi 125, 50m. Sul viso mi è comparsa una smorfia di fatica. Alzo lo sguardo e lo poso sul tabellone del tempo. Taglio il traguardo.

Ho capito da subito che molto probabilmente non ero riuscita a stare sotto le 3 ore e 30. Me ne avrebbe data conferma poco dopo un messaggio di mio papà che mi segue e supporta sempre, ovunque io mi trovi.

Mi sono avvicinata a una transenna, mi sono seduta e subito dopo sdraiata sollevando le gambe. Sentivo la necessità di dar tregua al mio polpaccio e in generale alle mie gambe. Ero stremata. Lo step successivo è stato cercare una borsa del ghiaccio che mi sono fissata al polpaccio alla bell’e meglio con il buffer e un elastico. Dopodiché mi sono diretta verso i volontari che mi avrebbero appeso al collo la mia decima medaglia.

Solo a questo punto ho lasciato andare tutto, anche le lacrime. Ero esausta. Non erano lacrime di dispiacere, anzi. Ogni gara è a sé, e io in questa gara ho dato tutto quello che potevo dare. Certo, potevo aggiustare qualcosina qua e là, ma di certo non avrei potuto stravolgere il risultato. Arrivo da un anno impegnativo, con una preparazione per la 100 km del Passatore alle spalle. Sono arrivata nelle migliori condizioni possibili. Queste 3 ore 30 minuti e 29 secondi valgono più dell’anno scorso, io valgo di più.

Mentre scrivo, a distanza di qualche giorno da allora, mi sembra tutto già così lontano nel tempo e con la mente fantastico già sulla prossima maratona. Una nuova città, una nuova programmazione degli allenamenti, una nuova trasferta insieme ai miei amici e compagni di squadra, ma soprattutto una nuova sfida che lancerò a me stessa.

Già da oggi si corre con la testa, con le gambe e con il cuore verso l’undicesima maratona.

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