La sveglia suona. Sono le 4:30 di mattina, avrò dormito sì e no 5 ore. Non faccio fatica a svegliarmi nonostante le poche ore di sonno, il fuso orario e, come se non bastasse, il cambio dall’ora legale all’ora solare. Mi sento comunque riposata. Vado in bagno, apro l’acqua fredda e la lascio scorrere nel lavandino. Guardo la mia immagine riflessa nello specchio e penso:
oggi è il grande giorno.. L’hai aspettato tanto, l’hai sognato, l’hai immaginato nella tua testa. Sei pronta. Vai là fuori e rendi tu questa città magica!
Mi infilo la tuta e, con un filo di trucco che uso sempre quando gareggio raggiungo alcuni dei miei compagni di squadra per la colazione. Poiché passeranno diverse ore tra la colazione e quando inizierò a correre abbondo con le quantità: fette di pane integrale tostate con la marmellata, yogurt magro greco e una bella tazza di caffè americano.
Sono le 5:45. Ho mezz’ora di tempo per prepararmi e scendere in tempo per prendere il pullman che dall’hotel mi condurrà al molo dove prendere il traghetto per Staten Island. Faccio presto, ho meticolosamente preparato tutto la sera prima, compreso il pettorale, n. 37771, fissato alla canotta DRC che indosserò sopra la mia maglia termica a manica lunga preferita della X-Bionic. Oltre al pettorale ufficiale della gara avrò sulla schiena un secondo pettorale che riporta il mio nome, Sara, con sotto il tag @RunningFactor, cosicché la gente che farà il tifo in strada possa incitarmi chiamandomi per nome, come da usanza.
Uscendo per prendere il pullman, tutta infagottata negli abiti vecchi che mi avrebbero tenuto al caldo fino a poco prima della partenza, entro in contatto con la temperatura esterna, non così fredda come avevo immaginato. Gli stessi abiti che indosso proteggeranno dopo di me altre persone alle quali saranno destinati una volta terminata la gara. Un’altra tradizione della maratona di New York recita che i vestiti “abbandonati” dai runner vengano raccolti e ridistribuiti tra le comunità di persone bisognose della città.
Nell’attesa di prendere il traghetto il sole inizia a sorgere da dietro i grattacieli, creando uno spettacolare gioco di luci ed ombre che va a riflettersi sul fiume Hudson, regalando a me e a tutti gli altri maratoneti, o aspiranti tali, uno spettacolo senza paragoni.
Durante il tragitto sul traghetto sono seduta all’interno. Sono rilassata e per nulla in tensione. Non è la mia prima maratona, so già come affrontare quel tipo di distanza. Quello a cui potrei non essere pronta è il carico di emozioni a cui sarò esposta per la bellezza di 42.195 m.
Prima di arrivare al village c’è da prendere un ultimo pullman. A 2 ore e 30 minuti dalla partenza faccio l’ultimo spuntino, una crostatina con la marmellata, fonte di zuccheri indispensabili per affrontare la lunga corsa.
Il pullman si ferma e capisco che siamo arrivati al village. Ovunque guardi ci sono runner: alcuni sdraiati sui prati, altri in cerca di un donut di Dunkin’ Donuts o chi in coda per prendere un caffè o per fare l’ultima pipì.
Quando le lancette del mio Fenix 5S Plus segnano mezz’ora dall’orario di partenza della mia Wave decido che è tempo di spogliarmi del superfluo e rimanere in tenuta da gara, pronta alla partenza. Tolgo i pantaloni lunghi della tuta restando solo con gli shorts neri Under Armour e calzo i Booster Elite BV Sport che limitando i movimenti oscillatori e le vibrazioni dei muscoli eviteranno l’insorgere del senso di stanchezza.
Una voce al megafono chiama a raccolta tutti i runner della Wave 3, la mia, e li invita ad avvicinarsi alla zona di partenza. Ci siamo.
Cammino ma vorrei già iniziare a correre. Sarà complice la musica di sottofondo che mi accompagna alla linea di partenza. Quando siamo tutti posizionati parte l’inno americano, che ascoltiamo in silenzio. Terminato l’inno lancio uno sguardo di intesa a Elena, Cristina, Davide e al Motta, i miei compagni di squadra, e dico loro: Good luck my friends!
Sono le 10:40. Let’s go, si parte.
VERRAZZANO BRIDGE
La partenza è sulle note di New York New York di Frank Sinatra e più che iniziare una maratona mi è sembrato di iniziare un ballo lungo le strade di New York. La prima parte del ponte che collega Staten Island con il quartiere di Brooklyn è in salita per metà del suo tracciato, ma sono troppo presa dal guardarmi intorno per accorgermene. Il respiro che si fa leggermente affannato è l’unico segnale che me lo ricorda. Quando cominciano a definirsi i profili dei palazzi e dei grattacieli inizia il tratto in discesa. Lascio le gambe libere di tenere il passo che veniva loro spontaneo. Sapevo bene quello che dovevo fare: dosare con cautela le forze nella prima metà della gara per non arrivare in difficoltà sul finale, che sarebbe stato più impegnativo.
BROOKLYN
Brooklyn mi aspetta ai piedi del ponte di Verazzano, con i primi spettatori posizionati con le braccia allungate per battere il cinque e con le ugole calde per incitare a gran voce noi runner. Catturo ogni sguardo, memorizzo ogni parola che possa darmi più forza e batto il cinque a quante più mani presenti sul mio percorso, specialmente se sono di bambini, agli occhi dei quali mi sembra di apparire come una supereroina dei fumetti divenuta realtà. Le strade si allargano e i runner si sparpagliano, rendendo più facile muoversi. Ovunque mi giri, a destra o a sinistra, è pieno di gente di tutte le età e di tutte le etnie, giunta in strada solo per vederci passare.
IL QUEENS
Un passo dopo l’altro arrivo nel quartiere del Queens. Le strade diventano più strette e contornate da alberi, i palazzi lasciano il posto a una serie di case a schiera come quelle che si vedono nei film americani. La gente sembra essersi riversata tutta in strada e affolla i marciapiedi, le scalinate delle case dalle quali esce musica di ogni genere, e perfino dalle finestre vedo persone che si sbracciano per salutare e gridare parole di incitamento. Mi trovo quasi a metà del tracciato di gara e ho solo sensazioni positive. Proseguo con facilità.
IL PONTE DI QUEENSBORO E L’INGRESSO A MANHATTAN
Arriva finalmente il momento di cui ho tanto sentito parlare: il ponte di Queensboro, il punto più silenzioso di tutta la maratona per l’assenza del pubblico, che collega il Queens con il quartiere di Manhattan. È un ponte coperto, lungo circa 800m, dove mi sono ritrovata circondata solo dagli altri runner e col solo sottofondo del rumore dei nostri passi e dei nostri respiri. Ho la sensazione di metterci molto tempo a percorrerlo. Sento il leggero dislivello, ma riesco a fronteggiarlo senza problemi. Sento anche di avere a disposizione ancora una buona riserve di energia e la cosa mi dà molta carica: questo vuol dire che sto dosando bene le forze.
Il ponte termina con una curva a gomito che mi immette dopo poche centinaia di metri sulla 1st Avenue. Sono nel cuore di Manhattan, e qui è puro delirio. Passo dal silenzio quasi assoluto al caos più totale. La gente è fuori di sé nel vederci passare, spuntano cartelloni colorati da ogni dove e con ogni tipo di frase: “touch here for more power”, tocca qui per avere più energia, questo lo slogan più gettonato. Ci sono bande di musicisti sparse qua e là e alcuni sono addirittura sistemati su palchi allestiti appositamente per l’evento. Ho un sorriso permanente stampato sul viso. Ciò che sto vedendo e vivendo va al di là di ogni immaginazione.
IL BRONX E HARLEM
La 1st Avenue sembra infinita, anche se si tratta solo di 5 km, ma ai miei occhi appare come una lunga lingua di asfalto di cui non si vede la fine. Allontano questo pensiero e mi godo lo spettacolo in corso. Ed è bastato distrarmi un attimo per vedere apparire come per magia un cartello con su scritto “Bronx”. Tutto ad un tratto mi sento come proiettata in un film. La gente è calorosissima e io assecondo il loro entusiasmo avvicinandomi alle ringhiere urlando con quanto più fiato avessi in gola, tenendone giusto un po’ per continuare a correre. Dopo i sali e scendi della 1st Avenue la strada è diventata più pianeggiante fino ad Harlem, ultimo quartiere ad essere attraversato prima di far rientro a Manhattan.
L’ARRIVO A CENTRAL PARK
Sono sulla 5th Avenue, so che ormai non manca molto. Devo sparare le ultime cartucce che mi rimangono. Arrivata a questo punto della gara o la va o la spacca. Inizio ad accelerare con moderazione il passo, cominciando a sorpassare qualche runner ormai alla stregua delle forze. Il pubblico è calorosissimo e mi aiuta nel mio tentativo di sprint finale. Dopo averlo costeggiato per buona parte della 5th Avenue finalmente entro in Central Park all’altezza della 90th street. Dopo un breve tratto nel parco il percorso mi riporta fuori, lungo la 59th Street per poi farmi rientrare definitivamente all’altezza di Columbus Circus.
Anche se non vedo ancora la linea del traguardo so che è vicino, il mio cuore lo sente perché comincia a battere all’impazzata. Comincio già a commuovermi. Incontro molti runner che stanno camminando ormai esausti. Sento vibrare il mio gps, lo guardo e leggo 42 km. Sono arrivata, penso. Contrariamente al mio Garmin il cartello davanti a me indica che ho ancora da percorrere l’ultimo km. Non è carino quando il kilometraggio degli orologi gps e quello della cartellonistica sono in disaccordo, perché tanto ha sempre ragione la seconda. Ma non mi faccio prendere dallo sconforto, anzi, tiro fuori tutta la grinta che mi rimane spremendomi fino all’ultima goccia. E ad un tratto ecco le tribune e davanti a me la finish line. Sono arrivata al traguardo della New York City Marathon.
Dopo un momento di stordimento torno in me e… piango. Un signore mi chiede perché stia piangendo, io gli rispondo che sono lacrime di gioia, allora mi sorride e mi fa i complimenti. Ancora oggi, se ripenso a quel momento mi tornano le lacrime agli occhi. Mi sono fatta mettere la medaglia al collo e l’ho guardata intensamente. È grande, quasi quanto il palmo della mia mano, ed è bellissima.
Le emozioni non sono finite nemmeno i giorni dopo la maratona. Passeggiando per la città con la medaglia al collo ho ricevuto tantissimi complimenti, quasi come se fossi un’eroina per aver portato a termine quei 42.195 m. È questo che rende grande e speciale la maratona di New York, il calore della gente, sia durante che dopo l’evento, perché non ti scruta come se fossi un marziano, al contrario ti guarda con ammirazione e rispetto. Abbiamo tanto da imparare in questo dagli americani.
Ora che sono tornata a Milano mi capita spesso di imbambolarmi a guardare la medaglia, con dietro inciso il mio nome e il mio tempo, 3h 44’ 13’’, superiore al mio PB di soli 2 minuti. In tanti mi avevano avvisato della difficoltà del percorso, pieno di sali e scendi soprattutto in corrispondenza di Manhattan, che non a caso significa letteralmente “isola delle colline”. Dicevano che sarebbe stata dura chiudere sotto le 4 ore. Ma questa era la loro versione dei fatti. La mia è che ho fatto una gara da manuale, con i passaggi alle due mezze perfetti (cit. del coach Matteo). Le salite mi fortificavano, le pianure mi velocizzavano, le discese mi mettevano le ali ai piedi. Credo fermamente che il mio risultato sia dipeso dalla totale assenza di ansia da prestazione: non sentendo la pressione del cronometro mi sono goduta il viaggio e il tempo è arrivato da sé.
Questo è il mio racconto della Maratona di New York. Molto più di una maratona, molto più di una gara, è un marchio indelebile che porterò sempre con me. Non potrò mai dimenticare quel 4 novembre, in cui ho coronato un sogno: essere una finisher della maratona più grande di tutti i tempi!